venerdì 29 giugno 2007

FREAK SHOW by Cheap Wine

I pagliacci al potere. I mediocri in trionfo. Gli ultimi saggi, emarginati. I truffatori invidiati. Gli idioti esaltati. I millantatori applauditi. I criminali santificati. I colpevoli assolti. I dementi idolatrati. Gli ultimi onesti sbeffeggiati. I buffoni incensati. L'intelligenza torturata. La verità estinta. La falsità elargita. Gli assassini regnano. I fanatici decidono. I re sono nudi. Applaudi. Applaudi ancora. Il mondo è un unico, gigantesco, decadente Freak Show.

THE GREENHORNES - Sewed soles (2005)


Chiamarlo Greatest Hits sarebbe stato esagerato, ma in qualche modo Sewed Soles assolve perfettamente al compito di riassumere l'avventura dei Greenhornes.Tre album e una manciata di singoli condensati in una ventina di tracce, ecco qual è il biglietto da visita che i "pupilli" di Jack White e Brendan Benson esibiscono nella circostanza. Che a ben vedere - cioè ascoltare - può essere letta come una coloratissima cartolina dal Pianeta Popedelia, una suggestiva raccolta di scorci sonori d'antan, memorie beat, garage e psycho buone per tutte le stagioni.
Quelle del terzetto di Cincinnati danno l'impressione di indugiare soprattutto alle voci Big Star (Good Times, Stay Away Girl), Kinks (It's Not Real, It Returns) e Yardbirds (Shadow Of Grief e la ghost cover track di Lost Woman), ma giusto per circoscrivere l'area di un suono che qui torna a mostrarsi fresco, ruvido e scintillante proprio come quarant'anni fa.
La macchina del tempo nel rock funziona sempre a meraviglia.
Elio Bussolino

Tracklist:
1. It's Not Real
2. Pattern Skies
3. Lies
4. I've Been Down
5. Hold Me
6. Shadow Of Grief
7. No More
8. There Is An End
9. Shame & Misery
10. Can't Stand Stand It (Alternate Version)
11. Good Times
12. Too Much Sorrow
13. Don't Come Running To Me
14. Satisfy My Mind
15. It Returns
16. Stay Away Girl
17. Shelter Of Your Arms
18. The End Of The Night
19. Lovin' in The Sun

Componenti del gruppo
Craig Fox, Patrick Keeler, and Jack Lawrence

DRIVE BY TRUCKERS - A blessing and a curse (2006)


“Il suono continua ad essere quello di un rock vintage segnato da sporco blues e strambo country. Non si sono smarrite energie ed autenticità e le emozioni grondano grazie ad una serie di ballate che esaltano lo spirito fuorilegge del gruppo (…) un disco che non ha punti deboli, ha ballate memorabili e chitarre taglienti, momenti lirici e nervosi colpi assassini, cupi colori notturni e radiosi sprazzi di orizzonti americani, canzoni benedette e canzoni maledette. Un disco da vivere fino in fondo in tutti i suoi aspetti (4 stelle – Bollino Disco Consigliato)” (BUSCADERO)

DRIVE-BY TRUCKERS 2007: Mike Cooley, Patterson Hood, Brad Morgan, John Neff, Spooner Oldham and Shonna Tucker
Tracklist:
1. Feb 14
2. Gravity’s Gone
3. Easy On Yourself
4. Aftermath USA
5. Goodbye
6. Daylight
7. Wednesday
8. Little Bonnie
9. Space City
10. A Blessing And A Curse
11. A World Of Hurt/td>

mercoledì 27 giugno 2007

HOT HOT HEAT - Elevator (2005)




Elevator è un mistero. Dopo due mesi di ascolto approfondito, nei quali non ha fatto altro che crescere, non sono ancora riuscito a capire come possano questi quattro canadesi essere riusciti nell'impresa di creare una simile raccolta di brani pop (nel senso più spudorato del termine) senza mai risultare monotoni o patetici e anzi, aggiungendo una dimensione completamente nuova al termine, andando a mischiare new wave e power pop come nessuno era riuscito in precedenza.O ancora meglio: come nessuno aveva osato tentare, in precedenza. Sì, perchè ci vuole un certo coraggio, a costruire una carriera sul ritornello assassino: il rischio di sembrare ridicoli, infantili o ambedue le cose insieme è altissimo. Bisogna essere dei fenomeni, per aggirare ostacoli del genere.Ecco, per l'appunto: gli Hot Hot Heat sono fenomeni. Dopo aver lasciato intravedere di che pasta erano fatti un paio d'anni fa, con lo scintillante debutto Make up the breakdown, la curiosità sul seguito era davvero alta. La storia è piena di esempi di band che, dopo una partenza fulminante, hanno a poco a poco iniziato a rallentare i ritmi, con risultati alle volte interessanti (Idlewild) e alle volte deludenti (Stereophonics ). "Maturità", la chiamano. Ed era proprio questo il mio timore prima di inserire Elevator nel lettore cd per la prima volta, che gli Hot Hot Heat fossero diventati "maturi". E' con sommo gaudio che annuncio che le mie paure si sono rivelate infondate.Elevator è, se possibile, ancora più frizzante del suo predecessore. E' davvero difficile trovare punti deboli, perchè è fin troppo chiaro che ci troviamo di fronte ad un capolavoro del suo genere, un'inestimabile gemma power pop capace di risultare intrigante anche dopo numerosi ascolti, aspetto che è spesso il limite di album di questo tipo.Strutturalmente, è un disco molto compatto: Running out of time è irresistibile e vi farà saltare, Goodnight goodnight (la nuova Boys don't cry? Ai posteri l'ardua sentenza) è irresistibile e vi farà saltare, Ladies and gentlemen è irresistibile e vi farà saltare...[...]... Shame on you è irresistibile e vi farà saltare, la title track è irresistibile e vi farà saltare.Francamente, non c'è molto altro da aggiungere. La seconda fatica degli Hot Hot Heat ha nella semplicità la sua arma vincente, e spiegarlo con termini complessi sembra quantomeno fuoriluogo. Se siete in cerca di un album che vi accompagni nelle vostre notti insonni, solitarie e depresse, indirizzate altrove la vostra attenzione. Se invece ne cercate uno... uhm... come dire... irresistibile e che vi faccia saltare, Elevator potrebbe essere in grado di scatenare in voi istinti primordiali di cui neanche sospettavate l'esistenza. Riccardo "Mist" Bidoia
:: Tracklist ::
1 Introduction (0:17)
2 Running Out of Time (2:45)
3 Goodnight Goodnight (2:10)
4 Ladies and Gentleman (2:55)
5 You Owe Me an IOU (3:04)
6 No Jokes - Fact (0:39)
7 Jingle Jangle (3:55)
8 Pickin' It Up (2:34)
9 Island of the Honest Man (3:02)
10 Middle of Nowhere (4:01)
11 Dirty Mouth (2:44)
12 Soldier in a Box (3:05)
13 (Untitled Track) (0:04)
14 Shame on You (2:45)
15 Elevator (3:47)

Band Members:
Luke Paquin (Guitar)
Dustin Hawthorne (Bass)
Steve Bays (Vocals, Keyboards)
Paul Hawley (Drums)

martedì 26 giugno 2007

MILBURN - Well well well (2006)


Milburn sono l'ennesimo prodotto "made in UK" tutto ritmi alla Arctic Monkeys e ritornelli imprimibili e abrasivi senza troppi ascolti all'attivo. Autori di diversi singoli strappa-applausi ("Milburn EP" e "Showroom") e non troppo appoggiati da certa stampa specializzata in Inghilterra, i quattro provenienti da Sheffield (iniziano le similitudini con le scimmie artiche) regalano un cd fresco, veloce e sbarazzino.Non aspettatevi nulla di nuovo, ma nel loro rivangare quello che va di moda oggi riescono a lasciare nell'ascoltatore medio una sensazione positiva che non tutti sono in grado di creare. Qualcuno magari li avrà visti fare da gruppo di supporto agli Arctic Monkeys nella loro breve apparizione in Italia: inutile dire che assomigliano anche troppo ai cuginetti famosi, ma la cosa che risulta strana è capire perché gli Arctic Monkeys abbiano ricevuto un hype esagerato e i Milburn solo le briciole. In fondo i Milburn suonavano già prima che gli Arctic si facessero strada tra demo su internet e copertine targate NME: misteri del music business.Comunque, le dodici tracce che compongono questo breve lavoro sono di pregevole fattura. Send in the boys è una valanga in una giornata d'estate, con la batteria che dà colpi di grazia e la chitarra finisce il lavoro, Lipstick licking ne segue l'andazzo senza risultare un fac-simile, ma è What you could've won (ultimo singolo da poco uscito) che rimane la mia preferita: una dolcezza iniziale che si infiamma in un crescendo di batteria tanto crescente da entrarti dentro, sotto la pelle, e dettare i tempi del tuo cuore per poi riadagiarsi su una calma apparente in un testo fatto di incomprensioni amorose e di pene d'amore che ti fanno cadere senza speranza per terra.Insomma. qualche mese fa saremmo stati a parlare del nuovo miracolo UK; per fortuna o per sfortuna arrivano dopo gli Arctic Monkeys e forse mai nessuno si ricorderà di loro. Ed è davvero un peccato, perché l'altra faccia di Sheffield talento ne ha a sufficienza per conquistarvi.

Track List
1. Well well well
2. Showroom
3. Send in the boys
4. What about next time
5. Lipstick licking
6. Chesire cat smile
7. Stockholm Syndrome
8. Storm in a teacup
9. Last bus
10. Brewster
11. What you could've won
12. Roll out the barrel

PROTAGONISTI:
Joe Carnall (Bass, Lead Vocals)
Louis Carnall (Rhythm guitar, vocals)
Tom Rowley (Lead Guitar)
Joe Green (Drums).


THE STEEPWATER BAND - Revelation sunday (2006)



Vengono da Chicago, e forse non poteva essere che così. E dopo sette anni di lunga gavetta, centrano probabilmente il disco che li farà conoscere definitivamente. Garantiscono per loro i Deep Purple che li hanno voluti nel tour americano (ovviamente, zona Sud) dopo averli selezionati tra moltissime band. Alle loro spalle, Sean Slade e Paul Kolderie già con gli Uncle Tupelo, i Radiohead e le Hole, a garantire quel suono leggermente scuro e metallico, pur nell'ambito di una musica tradizionalista. Sapete quel suono sbilenco che avevano gruppi come i Pearl Jam nei loro episodi più "bluesy"? Ecco. Prendete una ballata come "Lot of love around": ha più il sapore di un Uncle Tupleo "easy version" piuttosto che di una band southern. Eppure, gli Steepwater, ballate a parte, sono capaci di un suono a tratti micidiale. Forse un po' trattenuto, per quello che suonano, ma micidiale. Pezzi come "indiana Line" sono puro assalto sleazy southern, quasi una Bad Company in versione moderna. Taglienti e strappati, molto molto yankee, slabbrati si ma entro i confini di un rock blues molto ascoltabile (una su tutte, Baby You're on your own", cadenzata, equilibrata e precisa). D'altronde, aprendo con una canzone come "Mercy" (una Train Kept A Rolling acida e magmatica) il confronto non poteva essere che con una band in grado di non stereotiparsi, nonostante si parlasse comunque di standard blues. Allman Brothers Band. Bad Company. Heartbreakers. Blues Rock. Di più non potremmo volere. Un gruppo che merita moltissima attenzione. Mario Ruggeri


Track Listings :
1. Mercy
2. Collision
3. Revelation Sunday
4. Lot Of Love Around
5. Dance Me A Number
6. Steel Sky
7. Government Graffiti
8. Halo
9. Slow Train Drag
10. Indiana Drag
11. Baby you're on your own


Componenti del gruppo
Jeff Massey-Vocals, Guitar

Tod Bowers-Bass
Joe Winters-Drums

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giovedì 21 giugno 2007

I Love You But I've Chosen Darkness - Fear Is On Our Side (2006)


Ghost pronuncia a fatica un “questo è quanto mi manchi”, mimandolo attraverso chitarre che si rincorrono senza mai raggiungersi e linee melodiche che anelano parallele verso due punti vicini e non intersecabili. E quando arriva According to Plan diventa chiaro una volta per tutte che a parlare sono i fantasmi della “blank generation” dei Joy Division e dei Bauhaus, gli scheletri nell’armadio dell’amore ai tempi delle tenebre, dei cuori immersi nei calamai; mentre a fare rumore sono i tuffi di testa negli arrangiamenti non necessariamente blog-friendly, quelli che con un lavorio incessante di punto-croce sulla tela dei suoni cuciono cappucci per nascondersi. We Choose Faces, ma non è poi vero: piuttosto, la decisione è correre via nella Forest dei Cure quasi citata in At Last Is All, perché finalmente è tutto, è finita? Forse lo è, ma la fine assomiglia sempre ad uno dei racconti dei New Order, uno in cui il comandamento da rispettare, l’unico, è essere romantici, girare a disagio nel caleidoscopio dei sentimenti con la testa che gira e lo stomaco in subbuglio, buttare la testa indietro "in a Dash", con fare finalmente esausto. Ti amo, anche se una particella avversativa arriva a spezzare l’armonia delle due parole più fatidiche ed insinua il dubbio. L’insoddisfazione. La complessità della scelta. Ti amo, ma ho scelto l’oscurità: Fear is On Our Side è il debutto del quintetto texano I Love You But I've Chosen Darkness. Un lavoro che per attitudine, onestà di poetica ed intensità sonora, spazza semplicemente via.

:: Tracklist ::
1. The Ghost
2. According to Plan
3. Lights
4. The Owl
5. Today
6. We Choose Faces
7. Last Ride Together
8. At Last Is All
9. Long Walk
10. Fear Is On Our Side
11. Untitled
12. If It Was Me

Il gruppo è formato da Ernest Salaz, Christian Goyer, Edward Robert, Tim White, con la successiva aggiunta del chitarrista Daniel Del Favero

SMALL JACKETS - Walking the boogie (2006)



C’è voglia di riscoprire le radici del rock targato 60’s e 70’s tra i gruppi italiani e lo dimostrano gli Small Jackets, che giungono al secondo album dopo l’interessante debut-album “Play at high level” di due anni fa. Il titolo “Walking the boogie (Go down Records) fa subito pensare al cosiddetto boogie-rock, un sound unico creato da storiche band dei primi anni ‘70 come i Faces, in cui militarono Rod Stewart e Ron Wood, e gli Humble Pie di Peter Frampton e Steve Marriott. Proprio al compianto Marriott che guarda Lu Silver, voce e chitarra ritmica degli Small Jackets, sin dall’iniziale “My surprise”. Una partenza fatta di rock’n’roll sanguigno e genuino, in evidenza la solista di Eddy Current e la solida sezione ritmica con Danny Savanas (drums) e Rob Tini (basso). Nella successiva “Forever night” ci sono due ospiti importanti, Nick Royale e Strings degli Hellacopters che scambiano gli assoli con Eddy Current. Con “Leave me alone” siamo dalle parti dei Deep Purple di “Hush” grazie all’Hammond di Dany Led. Tracce di organo anche nel notevole chorus di “If you don’t need” che spezza una robusta ritmica funky. Discorso a parte per “Wintertime”, con un lungo e delizioso break acustico nella parte centrale. Per un attimo sembra di viaggiare a bordo di un tour-bus sulla west-coast assolata, come nel film “Almost famous”. Gli Small Jackets dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono gruppi di tutto rispetto, vedi Mantra OJM e Baby Ruth, che non hanno assolutamente nulla da invidiare ai colleghi esteri, basta solo ascoltarli e non avere preconcetti. Rock on!


Tracce: 01. My surprise
02. Forever night (special guess Nick Royale & Strings from The Hellacopters)
03. If you don't need
04. Leave me alone
05. Maybe Tomorrow
06. Wintertime
07. Born To Die
08. Heroes
09. Phoenix's Light
10. She Don't Care


Formazione:
- Lu Silver: voce, chitarra, harp
- Danny Savanas: batteria
- Eddy Current: chitarra
- Rob "Nobody" Tini: basso

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martedì 19 giugno 2007

FIVE HORSE JOHNSON - The mystery spot (2006)


Il richiamo del boogie si era fatto troppo assordante, continuava imperterrito da fine maggio e si è attenuato solo da poco con tre giri di The Mystery Spot. Il sesto album dei Five Horse Johnson è l'ennesimo ottimo lavoro southern partorito dai quattro provenienti dall'Ohio, hard-rock, blues, southern rock e chili e chili di feeling. Una miscela apparentemente semplice che si rileva invece vera e propria arte.Chitarre a tracolla, armonica in bocca e il santino degli ZZ Top versione "Tres Hombres" sul comodino e si parte felici per l'ennesima scampagnata portandosi appresso l'amico John Paul Gaster dei Clutch alla batteria.
Primo sostanzioso stop su Ten-Cent Dynamite, il riff Zeppeliniano sotto la calda voce di Eric Oblander elargisce spallate con ignorante foga. Un paio di curve ed inizia il rettilineo giusto per intonare un bel coro sul ritornello di Call Me Down facendo air-guitar con l'accendino a mò di slide.Potrebbero rattrappirsi le mani se si dovesse fare il verso immaginario sui chili di slide-guitars di The Mystery Spot, sono loro e l'armonica le prime donne stasera e i Five Horse Johnson portano le loro "damigelle" su un palmo di mano come fossero collegiali al primo ballo delle matricole.Niente lenti però, è il groove a farla da padrone persino nel sofferto blues di Drag You There.La presenza di Gaster lascia il segno impartendo un senso del ritmo con un timbro diverso da quanto finora sentito dai FHJ, più secco e deciso e anche certe backing vocals in Ten-Cent Dynamite o Keep Your Prize ricordano i Clutch.Onore alla tradizione quindi ma anche un certo tocco di irriverenza ruspante testimoniato da parti vocali focose, a tratti davvero rabbiose, e beffarde fanno di "The Mystery Spot" un disco dalle ottime vibrazioni, e tanto basta per meritarsi una doverosa segnalazione a chi ama il southern rock.


:: Tracklist ::
01.The Mystery Spot
02.Ten-Cent Dynamite
03.Call Me Down
04. ..Of Ditch Diggers and Drowning Men
05. Gin Clear
06. Rolling Thunder
07. Feed That Train
08. Keep Your Prize
09. Three Hearts
10. The Ballad of Sister Ruth
11. I Can't Shake It
12. Drag You There

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ELF POWER - Back to the web (2006)


Gli Elf Power sono di Athens, Georgia, la città natale dei R.e.m. A differenza dei colleghi concittadini non godono del sostegno di una grossa label, né sono impegnati in campagne democratiche di sensibilizzazione o tour mondiali. Tuttavia è da una decina d'anni che la band di Andrew Rieger si sta facendo largo nel difficile mercato indipendente Americano. Fin dal loro esordio i ragazzi, oggi sotto contratto con la nota Rykodisc, hanno raccolto consensi sia da parte della critica che da quel pubblico attento alle sonorità minimali da post-grunge. Negli anni l'itinerario sonoro della band è stato guidato dalle intuizioni di Rieger, personaggio oggi ispirato dal folk tradizionale, ma anche dal glam rock e dalla psichedelia. Le influenze maggiori giungono ora da Dylan e dai T.Rex, oltre che da quella gemma che è The Wall dei Pink Floyd. Le nozioni apprese dai capolavori di questi mostri sacri si riversano in Back To The Web, lavoro auto-prodotto e registrato con il sostegno di John Fernandes (violino), Jimmy Hughes (chitarra), Heather McIntosh (violoncello) e Josh Lott (batteria), oltre ai due membri storici Laura Carter e Brian Poole. L'obiettivo di Andrew Rieger è stato quello di assemblare un organico in grado di mascherare il folk in rock e pop. Il risultato è stato ottenuto combinando semplicemente il suono acustico delle chitarre con una buona sessione d'archi e una batteria coriacea. Questo processo ha portato a definire Back To The Web un disco di folk orchestrale, con evidenti venature pop. L'impatto di brani come An Old Familiar Scene, Peel Back The Moon, Beware!, 23rd Dream (nonostante l'andamento vivace, la più votata a The Wall) e la livida Forming è più che positivo e ripaga dei due anni di attesa: l'ultimo album risaliva infatti al 2004 (Walking With The Beggar Boys). E' proprio grazie ad estratti come questi (ai quali vanno aggiunte anche Come Lie Down With Me e All The World Is Waiting, altro estratto fortemente pop) che Back To The Web stacca di netto da alcuni lavori folk contemporanei, di colleghi diretti verso una eccessiva staticità musicale. Gradevole, talvolta scuro e discretamente organizzato, Back To The Web è davvero un folk orchestrale, con lievi riverberi gitani riscontrabili nella title track e in The Spider And The Fly. Nonostante il blasone dettato più dalla loro inclinazione "alternativa" e alcune frequentazioni trasversali (la band ha accompagnato in tour gente come Dinosour Jr., Guided By Voices e Wilco), gli Elf Power stanno ora percorrendo un sentiero tradizionale, battendo anche i luoghi del mainstream, come il South By Southwest Festival di Austin. (Carlo Lancini)
Tracklist:
1. Come Lie Down With Me (And Sing My Song)
2. An Old Familiar Scene
3. Rolling Black Water
4. King Of Earth
5. Peel Back The Moon, Beware!
6. 23rd Dream
7. Somewhere Down The River
8. The Spider And The Fly
9. Forming
10. All The World Is Waiting
11. Under The Northern Sky
12. Back To The Web

giovedì 14 giugno 2007

Fincantieri - una battaglia di sinistra

Fincantieri, l'assalto all'ultimo gioiello pubblico
Contro la quotazione in borsa e un piano industriale inadeguato, venerdì 15 sciopero e manifestazione nazionale a Roma. Indice la Fiom Cgil
Francesco Piccioni
Perché privatizzare una società leader globale nel suo settore e con i bilanci in attivo? Perché discutere separatamente, contro ogni consuetudine e logica, di piano industriale e collocamento in borsa? Perché, soprattutto, quotare in borsa una società strutturalmente a redditività molto inferiore ai tassi di interesse?Domande che la Fiom Cgil pone e che investono la scelta del governo su Fincantieri, che rappresenta il 43% del settore delle navi da crociera, oltre le commesse militari. Domande che hanno trovato rispondenza eccezionale tra i lavoratori del gruppo: più del 70% di loro ha firmato l'appello a Romano Prodi intitolato «Costruiamo belle navi, lasciateci continuare». Ma non è ancora finita. Firmano tutti: operai, impiegati, tecnici, quadri, ingegneri. Manca solo il cda. Ben oltre la quota di iscritti alla Fiom. E venerdì mattina, al termine dello sciopero generale di 8 ore, con manifestazione nazionale a Roma (da piazza Esedra a Santi Apostoli, alle 9,30) consegneranno l'appello e le firme al governo.Fim e Uilm hanno una posizione diversa. Ma sembra proprio che la stragrande maggioranza dei dipendenti abbia le idee chiare. Non credono affatto che sarà sufficiente - in caso di quotazione in borsa - che il Tesoro mantenga il 51%, perché tutti sanno che il mercato non ama le società «non contendibili» («è già stato fatto, all'inizio, con Alitalia; e sappiamo com'è finita», spiega il segretario generale Gianni Rinaldini). Né vengono confortati dall'interessamento delle banche («che non vanno a investire in qualcosa che rende meno; nessuna banca si comporta in questo modo»); anzi, sembra una conferma che, più delle navi, interessi il patrimonio immobiliare (i cantieri navali coprono aree molto vaste, ovviamente in luoghi-chiave della costa: Sestri Levante, Castellammare, Monfalcone).Il piano industriale prevede investimenti importanti (oltre 500 milioni) e proprio per trovare queste risorse, si dice, bisogna quotarsi in borsa. Ma nel piano non c'è traccia di ciò che servirebbe al rilancio: investimenti per bacini più grandi, visto che la tendenza è verso navi formato gigante. Il settore, a livello internazionale, ha triplicato la produzione in soli 5 anni (dai 20 milioni di tonnellate nel 2001 ai 58 del 2006): l'azienda dominante dovrebbe saperlo bene. Al contrario, il progetto di acquisizione di una cantiere «low cost» (in Ucraina, forse) implica un farsi concorrenza da soli, ossia delocalizzare; visto che al di fuori della fascia hi tech è impossibile battere la concorrenza asiatica («le navi, in fondo, si fanno ancora a mano»).C'è infine il fattore «sociale». La cantieristica presenta un altissimo indice come «moltiplicatore economico»: muove infatti più lavoro e più «filiere» di qualsiasi altro. Non a caso i comuni interessati, e soprattutto la Regione Liguria, hanno bocciato all'unanimità sia il «piano industriale» che il progetto di quotazione. Evidente che non c'entra nulla l'«ideologia conservatrice» della Fiom. Che un sassolino però se lo toglie: «di innovatori come Finmek - con Fulchir finito in galera, ndr - facciamo volentieri a meno»

Speriamo che questo governo cosiddetto di centrosinistra riesca nell'impresa di fare qualcosa "di sinistra"

LITTLE MAN TATE About What You Know (2006)


I Little Man Tate hanno tutto contro di loro. In primo luogo sono una rock band inglese nel senso più classico e tradizionale del termine, uno di quei tipici prodotti a base di innocuo rock chitarristico che l’industria musicale britannica fabbrica a ritmi vertiginosi per la gioia di riviste sempre più affamate, un gruppo che suona l’ennesima rimasticatura di vecchie e impolverate chincaglierie da mercatino delle pulci targate Kinks, Who e Jam, e rivendute a prezzo pieno come fossero nuove. In più, come se non bastasse, su questi Little Man Tate pesa l’imperdonabile aggravante di venire dalla fertilissima Sheffield, il che ormai comporta l’inevitabile accostamento ai più noti concittadini Arctic Monkeys e l’altrettanto inevitabile condanna a essere inseriti nella folta schiera dei gregari che vorrebbero ma non possono.Ma il bello è che i Little Man Tate tutte queste cose le sanno bene e meglio di chiunque altro, non per niente la canzone-manifesto che apre il loro disco di debutto gioca d’anticipo e s’intitola "Man I Hate Your Band", una mezza pinta di chitarre mod schiumanti e un ritornello avvitato su sé stesso che non lascia molto spazio a elucubrazioni o a compiaciuti intellettualismi e che conosce la combinazione esatta per liberare la curva di hoolingan maneschi e inferociti sepolta in ognuno di noi.Più che un disco, questo "About What You Know" somiglia a una sudatissima e appiccicosa lezione di educazione fisica a base di birra e sigarette. "Sexy Latin" e "European Lover" seguono la strada indicata da Oasis e Stereophonics, con giri melodici estremamente rudimentali e piacevoli affondi nei ritornelli che sembrano fatti apposta per amplificare l’apoteosi calcistica di folle ubriache e urlanti. "This Must Be Love" e "House Party At Boothy’s" innalzano, secondo una tradizione tipicamente albionica, un piccolo monumento poetico al mito dei venerdì sera trascorsi al pub sotto casa, tra slanci di rude orgoglio operaio innaffiato di birra e aspirazioni sessuali spesso frustrate.

Tracklist:
01 - Man I Hate Your Band
02 - European Lover
03 - Sexy In Latin
04 - This Must Be Love
05 - House Party At Boothy's
06 - Who Invented These Lists
07 - Court Report
08 - Little Big Man
09 - 3 Day Rule
10 - This Girl Isn't My Girlfriend
11 - Down On Marie

Componenti del gruppo:
Jon Windle - (Vocals & Guitar)
Maz - (Guitar)
Ben Surtees - (Bass)
Dan Fields - (Drums)


RUTHIE FOSTER - The phenomenal (2007)


Ruthie Foster's the newest voice in old-school soul. Her fifth album is a remarkable flashback to the genre's '60s and '70s heyday, framing her warm butter-and-cayenne-pepper singing with organ, electric piano, shimmering guitar textures, and strong backbeats. That sound, along with her strength as a song interpreter--rippling with beauty on Lucinda Williams's "Fruits of My Labor," stunningly emotional on Son House's cautionary Delta spiritual "People Grinnin' in Your Face"--and her fine-tuned social politics, makes Aretha Franklin, Roberta Flack, and Nina Simone reasonable artistic references. For the 42-year-old Texan, this historic approach is new. Until now she's been an obscure acoustic-guitar-wielding singer-songwriter. And, indeed, the evocative lyricism of her own tunes "Harder Than the Fall," "Heal Yourself," and "Beaver Creek Blues" is clearly the work of an experienced craftsperson. But the performances on this elegant album, made under the tutelage of imaginative and empathetic Austin-based producer Malcolm Welbourne, live up to its boastful title, and seem destined to bring Foster the larger audience she deserves.

Track Listing:
01 - 'Cuz I'm Here
02 - Heal Yourself
03 - Fruits Of My Labor
04 - People Grinnin' In Your Face
05 - Up Above My Head (I Hear Music In The Air)
06 - Harder Than The Fall
07 - Beaver Creek Blues
08 - Mama Said
09 - Phenomenal Woman
10 - A Friend Like You
11 - I Don't Know What To Do With My Heart

RADIO BIRDMAN - Zeno beach (2006)


Seminali iniziatori con i Saints della scena garage punk australiana, artefici di un’esplosiva miscela di Stooges, MC5, 13th Floor Elevators, sonorità surf e, non di rado, dilatazioni psichedeliche doorsiane, i Birdman ( formatisi nel 1974 ) del cantante Rob Younger e del chitarrista Deniz Tek tornano nel 2006 con un nuovo, inatteso e strepitoso album.“ Zeno Beach “ non è il risultato di una reunion motivata dallo sfruttamento economico del “ mito “ che ha avvolto sempre di più il gruppo negli anni, ma piuttosto l’inevitabile sbocco di un’energia creativa che negli anni non ha mai smesso di pulsare. Dai tempi di “ Living Eyes “, ultimo lavoro a firma Radio Birdman ( licenziato in patria nel 1978 e poi distribuito anche all’estero nell’81 ) prima dello scioglimento, i vari componenti del nucleo originario della band hanno continuato a diffondere il verbo del garage punk attraverso diverse formazioni*, fino al 1996, anno in cui la band torna ad unirsi per una serie di concerti che finiranno, l’anno successivo, nel live “ Ritualism “. Dopo alcuni cambiamenti nella line-up storica ( il bassista Warwick Gilbert e il batterista Ron Keeley lasceranno il posto a Jim Dickson e Russel Hopkinson ) la band licenzia lo splendido “ Zeno Beach “.E’ incredibile, assolutamente incredibile come tutti questi anni non abbiamo cambiato di una virgola l’irruenza selvaggia dei Birdman, che nelle tredici tracce dell’album suonano ruvidi e nervosi come ai tempi di “ Anglo Girl Desire “ e “ Murder City Nights “ e , in alcuni casi, forse addirittura più convincenti. “ Zeno Beach “ si apre con i riff abrasivi di “ We’re Come So Far ( To Be Here Today ) “, a cui fa seguito la potenza garage\ r&b di “ Connected “, il Detroit sound di “ Remorseless “ e il macabro voodobilly di “ Hungry Cannibals “, una creatura che si nutre di tremendi colpi di hammond e arroganti chitarre punk. Straordinari. Senza se e senza ma.Non manca la vena psichedelica che aveva caratterizzato gemme del passato come “ Descent Into the Maelstrom “ e “ Men With The Golden Helmet “: “ The Brotherood Of Al Wazah “ suona come un impetuoso magma garage blues che fluisce nei territori lisergici devoti al piano di Ray Manzarek, di cui il tastierista Philip “ Pip “ Hoyle si dimostra, una volta di più, il degno erede.Il surf punk di “ Zeno Beach “ chiude un ( altro ) album leggendario tra backing vocals solari ed acerbe impulsività giovanili.Da trent’anni gruppi come i Radio Birdman permettono al Rock di esistere per quello che è la sua essenza: ribellione, selvaggia, sincera, veemente, eterna.

TRACKLIST:
1. We’ve Come So Far(To Be Here Today)
2. You Just Make ItWorse
3. Remorseless
4. Found Dead
5. Connected
6. Die Like April
7. Heyday
6. See The Road
8. Subterfuge
9. If You Say Please
10. Hungry Cannibals
11. Locked Up
12. The Brotherhood Of AlWazah
13. Zeno Beach

Componenti del gruppo:
Jim Dickson - bass
Russell Hopkinson - drums
Pip Hoyle - keyboards
Chris Masuak - guitars
Deniz Tek - guitars
Rob Younger - vocals

lunedì 11 giugno 2007

TODD SNIDER - The devil you know (2006)


Todd Snider, il songwriter di Portland ormai a Nashville in pianta stabile e di cui tanto è stato già detto, nell'ultimo periodo si è dato molto da fare, licenziando in queste settimane un nuovo lavoro da studio. Non sono mancate inoltre numerose collaborazioni nei tributi a Kris kristofferson (Maybe You Heard, inclusa in The Pilgrim), Kinky Friedman (They Ain't Making Jews Like Jesus Anymore, pubblicata su Why The Hell) e a Peter Case (Travelin' Light, brano del voluminoso - 3 Cd - A Case For Case): omaggi che gli fanno onore e valorizzano ulteriormente il suo prospettato e perpetuo rilancio (il suo nome compare insieme a quello di artisti ben più affermati come Willie Nelson, Emmylou Harris e Rodney Crowell). Il nuovo album da studio è invece il sequel di New Connection e di East Nashville Skyline: The Devil You Know, la cui copertina offre già da sé alcuni spunti importanti, segue difatti l'andamento dei precedenti e ha un inquadramento musicale che fa della Nashville alt-country e John Prine i principali punti cardinali. Prine sembra proprio l'autore di riferimento di molte ballate cantautorali, fra cui Happy New Year (brano folk, vivace e quasi parlato che chiude il disco) e Just Like Old Times, Carla e You Got Away With It, tre pezzi acustici in successione: il primo una onesta ballata; il secondo più folk; il terzo, caratterizzato da incisi elettrici in crescendo ed orientato al country recitato. Il paragone fra Todd e il suo mèntore è stato fatto di recente persino da Kris Kristofferson: quest'ultimo ha affermato appunto che il primo abbia rubato al secondo (pur senza commettere alcun reato punibile) il cuore e la sensibilità arguta nello scrivere canzoni. Eppure The Devil You Know non è solo John Prine: Todd include anche una buona dose di sano rock and roll, dai ritmi infuocati scanditi da piano e chitarre (le sue più quelle di Will Kimbrough e Tommy Womack). A dispetto del pianoforte d'apertura (che sembra scippato a Neil Young), If Tomorrow Never Comes ha nelle corde Jerry Lee Lewis e Chuck Berry; Thin Wild Mercury è fondamentalmente di estrazione blue-collar, benché siano le finiture roots (violino e lap-steel in particolare) a dare il giusto taglio al pezzo; pure The Devil You Know, la title-track, è un treno che corre su binari rock e blues. Come in ogni suo album, Todd inserisce un paio di ibridi (Looking For A Job e Unbreakable), estratti che vanno nella direzione della ballata, ma dal cuore elettrico pulsante e dal motore che, a regime, scuote tutta la polvere della periferia di Nashville. Dal punto di vista cantautorale, The Devil You Know parla all'uomo qualunque visto dalla parte dell'uomo qualunque: racconta di una guerra che il povero non può vincere, soprattutto se sprovvisto di un pick-up e di vestiti puliti e alla moda. Il disco è l'ennesimo lavoro che in questo periodo rosicchia il piedistallo, ormai un po' instabile, su cui troneggia il "Sogno americano". (Carlo Lancini)

Tracklist:
1. If Tomorrow Never Comes
2. Looking For A Job
3. Just Like Old Times
4. Carla
5. You Got Away With It (A Tale Of Two Fraternity Brothers)
6. The Highland Street Incident
7. Thin Wild Mercury
8. The Devil You Know
9. Unbreakable
10. All That Matters
11. Happy New Year

sabato 9 giugno 2007

THE MORNING AFTER GIRLS - Shadows evolve (2006)


Questa è una band giovane - Sacha Lucashenko e Martin B. Sleeman nascono a Melbourne, ma presto si trasferiscono a Sidney, dove incontrano Anton Jakovljevic, Scott Von Ryper e Aimee Nash, con cui formano l’attuale line-up dei Morning After Girls.Psichedelia come stile di vita e attitudine di totale menefreghismo verso i problemi della società sono i tratti salienti del quintetto, che suona come se i Led Zeppelin si fossero formati ieri, su una spiaggia di Melbourne. Andategli a spiegare che la marijuana e la poligamia sono illegali; che i capelli in quel modo non vanno più di moda; che dagli Anni Settanta ad oggi, qualcuno è morto, mentre altri non hanno più voglia - perchè non c’è più niente da trasgredire; e che molte rockstar di quell’epoca passano il resto della loro vita a tagliare l’erba del giardino. Qualcuno gli spieghi - per favore - che il vinile (uscito, a distanza di un anno dall’Australia, nel Regno Unito) è stato sostituito dai cd. Canzoni di un’altra epoca per gente di un’altra epoca e per coloro che avrebbero voluto esserci: “Hi-Skies” è Zeppelin al cubo, chitarre che prendono fuoco e urla sparate come raggi laser - con buona pace dei Mars Volta; “Hidden Spaces” e “Always Mine” sono ballate di ieri che funzionano maledettamente oggi, riff di chitarra oziosi - ma mai banali - sulle orme dei Raconteurs di Jack White; “Fireworks” sembra il lato B degli ultimi Sonic Youth; “Straight Thru You” la miglior canzone di Howl dei Black Rebel Motorcycle Club; e “Slowdown” unisce le premonizioni dei Doors alla rilassatezza australiana - il miglior omaggio che poteva essere fatto a Morrison & C.

RAY LAMONTAGNE - Till the sun turns black (2006)


Il primo album di ogni artista è sempre qualcosa di particolare: è il frutto di un lavoro musicale e di songwriting durato anni, costituito da perfezionamenti continui e giunto al culmine grazie ad arrangiamenti sperimentali e svincolati. Il secondo disco è in genere quello più complesso, specialmente se il primo ha avuto successo. Ma con il secondo album, in modo particolare se si è ottenuto un contratto con una major, l'artista rischia di non aver più frecce nel proprio arco e di assoggettarsi a vincoli temporali imposti da terzi: cosa che porta inevitabilmente il musicista ad arrabattarsi alla meglio, trascurando però la forma delle proprie canzoni. Ray LaMontagne si è fatto apprezzare per un esordio esaltante, Trouble, che ha creato intorno a sé diverse aspettative. Il suo seguito di rischiava di essere, come è capitato ad alcuni suoi illustri colleghi, un flop tale da precludergli ulteriori sviluppi commerciali di rilievo. Onestamente, è forse ancora troppo presto per scorgere i frutti di Till The Sun Turns Black, disco uscito solo a fine agosto. Certo è che questo nuovo lavoro è a tutti gli effetti il degno seguito del precedente, sia a livello compositivo che dal punto di vista musicale. Sarà che tutto (o quasi) ciò che tocca Ethan Johns si trasforma in oro, ma Till The Sun Turns Black è un album di spessore nato soprattutto dai vari stati emotivi di Ray, riflessi in canzoni eleganti e raffinate. Ethan Johns ha qui il compito di ricamare le tracce con arrangiamenti corposi, dove gli archi sono un elemento primario. Till The Sun Turns Black si apre con Be Here Now, brano costruito su di una melodia sospesa, realizzata ai violini e al pianoforte: il pezzo ha tutta l'aria di rappresentare una sorta di introduzione, di porta d'accesso per un disco caratterizzato da ben altro. Passata la prima, ecco che l'album acquista spessore: Empty ha un suono più convincente, dai modi vagamente Western, con Morricone che fa capolino fra gli archi, la chitarra acustica e il basso. Poi è la volta di Barfly, piccolo capolavoro di semplicità: la voce rauca e al contempo delicata di Ray, densa di trasporto, si fa accompagnare da un organo lontano e dai fremiti della chitarra elettrica. Three More Days ha invece un imprinting decisamente Motown, reso con l'utilizzo canonico di hammond e fiati: il brano, un'altra gemma, è di stampo decisamente soul. I ritmi vivaci lasciano presto il posto alla romantica Can I Stay, cantata lentamente e retta nuovamente dagli archi, che la convertono in una melodiosa pop-song. You Can Bring Me Flowers è invece un pezzo dalle tinte jazz metropolitane e ben impreziosito dai fiati, strumenti che ritroviamo anche nella ballad Gone Away From Me, traccia velatamente country-blues. Una chitarra classica introduce poi le malinconiche Lesson Learned e Truly, Madly, Deeply (brano strumentale), mentre gli archi tornano a dominare nella title-track, anch'essa traccia malinconica. La chiusura del disco è affidata infine agli ottoni e al tamburello di Within You, canzone che la dice lunga sulle capacità di Ray nel comporre ed interpretare pezzi struggenti. Con Till The Sun Turns Black, LaMontagne si dimostra nuovamente un folk-singer disposto volentieri a scendere a patti con il soul, un artista dalle qualità cantautorali interessanti e dotato di una malinconia interpretativa senza eguali. L'esperienza di Ethan Johns, il suo modo di leggere il folk e la sua concezione di uno stile Americana ad ampio respiro sono altresì elementi rilevanti. (Carlo Lancini)
Track list
1. Be Here Now
2. Empty
3. Barfly
4. Three More Days
5. Can I Stay
6. You Can Bring Me Flowers
7. Gone Away from Me
8. Lesson Learned
9. Truly, Madly, Deeply
10. Till the Sun Turns Black
11. Within You

venerdì 8 giugno 2007

TERRORISTI AL G8


Eccovi la foto di uno dei terroristi che attentano al G8.....ma saranno effettivamente questi gli uomini da cui bisogna guardarsi? o saranno gli stessi partecipanti al vertice a doverci preoccupare? Propendo x la seconda ipotesi

KENNY WAYNE SHEPHERD - 10 Days out (2006)


Nel giugno del 2004 Kenny Wayne Shepherd intraprese un viaggio d’amore e di musica nel Sud negli Stati Uniti per celebrare la sua passione nei confronti del blues. Cercava materiale per un documentario e un disco live e lo trovò prendendo contatti con alcuni vecchi maestri neri, stelle di prima magnitudo come B.B. King o Clarence Gatemouth Brown e artisti di seconda fila, alcuni dei quali avevano servito con dedizione leggende blues come Howlin’ Wolf e Muddy Waters. I frutti di quel viaggio sono in questo ricchissimo doppio: che serve al protagonista per guadagnare punti e passare dalla penombra alla luce sfolgorante ma svolge anche una funzione meno egoistica, celebrando con gioia una musica in punto di morte - il Delta Blues è sparito da tempo e suo figlio, quello che si elettrificò a Chicago negli anni Cinquanta, sta per lasciarci anch’esso. Shepherd è sempre stato considerato un muscolare della chitarra, un virtuoso psico-hard sulla scia del compianto Steve Ray Vaughan: e non è un caso che in questo viaggio lo abbiano accompagnato Chris Layton e Tommy Shannon, i Double Trouble a suo tempo scudieri del texano. Il disco però (per fortuna) non è uno showcase di soli tuoni e fulmini; la chitarra di Shepherd leva spesso e incisivamente la voce ma sa rispettare il paesaggio circostante, cerca le emozioni più forti ma riesce a moderare il tono quando vanno in onda slow blues come Potato Patch (ospite Jerry Boogie McCain), selvatici boogie come Chapel Hill (John Dee Holeman), struggenti mid tempo alla maniera antica (Texas Come Rollin’ Down, Henry Townsend). Questa ricerca di varietà non eclatante piace anche nella scelta del repertorio: brani minori però autentici, appassionanti si affiancano a classici da cui ci si impegna a stillare ancora buon succo - The Thrill Is Gone, Born In Louisiana, Red Rooster, Spoonful, Got My Mojo Workin’.
Riccardo Bertoncelli

TRACK LISTINGS:
1.prison blues
2.potato patch
3.honky tonk
4.thrill is gone, the
5.tina marie
6.born in louisiana
7.chapel hill boogie
8.tears come rollin' down
9.knoxville rag
10.big daddy boogie
11.u-haul
12.red rooster
13.sittin' on top of the world
14.spoonful
15.grindin' man

THE BROUGHT LOW - Right on time (2006)




Qualche volta ci si imbatte in gruppi assolutamente derivativi, cioè tali da richiamare alla mente i loro antesignani storici, le bands senza le quali la loro musica forse non sarebbe nemmeno potuta esistere. Ignorarli non sempre è giusto, perché la musica rock, avendo ormai acquisito il diritto alla classicità e alla menzione enciclopedica, si espone inevitabilmente alla critica del già sentito. Quello che davvero conta è che gli epigoni dei mostri sacri siano credibili, autentici, coinvolgenti. Tutto questo sproloquio per dire che il trio Newyorkese dei Brought Low suona un rock-blues sanguigno e genuino che non può che rimandare ai fasti dei Lynyrd Skynyrd, degli Aerosmith, dei primi Faces, dei Rolling Stones, dei Buchman Turner Overdrive, dei più recenti Black Crows. Eppure, al di là degli inevitabili richiami, la musica di Benjamin Howard Smith e compagni non ci lascia indifferenti. Trasuda forza, calore e sudore, coinvolge fin dal primo ascolto e nessuno direbbe mai, neanche per un attimo, che nasce così per calcolo o per moda. E' rock-blues elettrico e potente per imprinting naturale. Possiamo decidere che non ci interessa, ma mai e poi mai bollarla di costruzione a tavolino o di esercizio di stile.
Tracklist
1.: Better Life
2.: Hail Mary
3.: This Ain't No Game
4.: Tell Me
5.: Dear Ohio
6.: Throne
7.: Vernon Jackson
8.: Shakedown
9.: Blues For Cubby
10.: There's A Light
The band:
Benjamin Howard Smith/vocals & guitar;
Nick Heller/drums;
Robert Russell/bass

giovedì 7 giugno 2007

VERTICE G8


HOWLIN RAIN - Howlin rain (2006)


Early 70’s Heavy drinking Rock & Roll music for die hard air guitars’ fans
Hanno il piglio da supergruppo ciuchedelico anni 70 da radio Am ma è solo una macchina del tempo ben oliata quella su cui viaggiano i tre Howlin’ rain, millesimo side project per Ethan Miller di Comets on Fire e John Moloney di Sunburn hand of the man alle prese con il good ol’ time rock & roll di chi è venuto prima di loro. La eco di Humble Pie, Creedence, James Gang, Blue Cheer, Crazy Horse appare qua e là fra le pieghe di otto brani dove tutto scorre bene nel nome di pace, amore e musica fino a quando la chitarra di Miller pare stracciare gli speakers e farne carta da parati in “Calling Lightening with a Scythe”. Se la vostra long hot summer non è ancora finita e vi manca tanto scorazzare lungo la A1 o volete solo sognare la West Coast , Howlin’ Rain sono quanto di meglio potete portarvi a casa per venti euro. Fatevi allora trascinare dalla chitarra scordata in coda a “Roll on the Rusted Days” o all’apocalittico contrappunto di “Hanging Heart” che pare iniziare con l’ultimo accordo del brano primo e ti si stampa addosso indelebile con la sua lunga coda corale che attende solo tramutarsi nella più invasata delle jam. Se non vi bastasse c’è sempre “Indians, Whores and Spanish men of God” in cui Miller si tramuta nel miglior Steve Marriott degli ultimi anni e la sua chitarra vomita lava. E c’è spazio per un brano dal tono più sperimentale in questa festa di chitarre, bassi e batterie massiccie : la più oscura “ In sand and dirt” pare uscita dalla psichedelica distorta inglese dei tardissimi sessanta, un po’ Black Sabbath, un po’ Ansley Dumbar Retalation, un po’ Edgar Broughton Band, un po’ Killing Floor. La finale “ The Firing of the Midnight Rain” pare addirittura uscire da “Highway” dei Free.Troppe influenze e tutte ben dosate per assomigliare davvero a qualcuno. Diciamolo!: Howlin’ rain è un disco di debutto che trasuda un’ aria non cospiratoria, la gioia di fare musica semplice che va dritto al cuore, senza troppe preoccupazioni pur se il sound prodotto potrà suonare derivativo di questo o quell’artista di riferimento, in definitiva siamo davanti a un disco che vie di luce propria. Rock & Roll, insomma!.
Ernesto de Pascale

Tracklist:
1. Death Prayer in Heaven's Orchard
2. Calling Lightning with a Scythe
3. Roll on the Rusted Days
4. Hanging Heart
5. Show Business
6. Indians, Whores and Spanish Men of God
7. In Sand and Dirt
8. Firing of the Midnight Rain

mercoledì 6 giugno 2007

THE OOHLAS - Best stop pop (2006)




The Oohlas sono Greg Eklund, ex-batterista degli Everclear (gruppo pressoché sconosciuto da questa parte dell'oceano, ma con un certo seguito sulla scena indie-rock americana), il fratello Mark e la rossa (di chioma) Ollie Stone. Musicalmente sono parenti alla lontana dei Pixies di "Bossanova" e forse un po' anche dei Pavement di "Crooked Rain, Crooked Rain". Più in linea diretta sono i figliocci di quella strana creatura a cento teste nota come post-grunge, come del resto lo erano gli Everclear, ma nella sua accezione più contemporanea ed ormai emancipata.
Il loro album di debutto "Best Stop Pop" arriva dopo un EP auto-prodotto nel 2004, che aveva già sollevato un discreto interesse e di cui questo ultimo lavoro ripropone diverse tracce. Il suono degli Oohlas è saldamente sorretto dalla coppia di chitarre elettriche di Eklund e della Stone, che si alternano anche alla voce, mentre basso e batteria hanno ruoli più di contorno. L'effetto che se ne ottiene sono vere e proprie ondate di robusto suono elettrico, vivaci giri sulle corde delle chitarre, che continuano a rubarsi la scena sovrapponendosi e rincorrendosi senza sosta. Il tutto però rifuggendo qualunque pretestuosa attitudine noise; quasi, anzi, rivendicando una certa vicinanza alle sonorità più orecchiabili e radio-friendly tipiche del college rock.

Tracklist:
1. Gone
2. Tripped
3. Across The Stars In Blue
4. Small Parts
5. Rupert Brihor Chang
6. TV Dinner
7. Cahuenga Shuffle
8. From Me To You
9. Charbonneau
10. Octopus
11. Snow Shoes
12. The Rapid

THE YAYHOOS - PUT THE HAMMER DOWN (2006)


Grandi Yayhoos, se non ci fossero bisognerebbe inventarli. L’ottimo Eric “Roscoe” Ambel (attualmente chitarrista dei Dukes di Steve Earle ma titolare di una brillante carriera che oramai si dipana lungo circa trent’anni di storia della musica rock) si associa con tre compagni di malefatte che rispondono al nome di Dan Baird (ex Georgia Satellites già autore delle due strepitose hit internazionali “Keep Your Hands To Yourself” e “Battleship Chains” N.d.A.), Keith Cristopher e Terry Anderson e di tanto in tanto, quando il tempo libero dagli altri impegni musicali lo permette, i quattro pards si incontrano in una qualche fattoria a bere ed a mangiare ed escono fuori i dischi degli Yayhoos: veri e propri bignami della musica rock, intriso, di sesso, fumo, alcool e tanto sanissimo e scatenato R&R.

Tracklist:
1. Where's Your Boyfriend At
2. All Dressed Up
3. Never Give an Inch
4. Right as Rain
5. Love Train
6. Hurtin' Thing
7. Would It Kill You
8. Everything/Anything
9. Gettin' Drunk
10. Between You and Me
11. Fittin' to Do
12. Roam
13. Over the Top

JOHNNIE JOHNSON - JOHNNIE B BAD


Johnnie Johnson is simply a fantastic piano player with a style all his own. Let's face facts - It was Johnnie Johnson who wrote such chuck berry classics as Johnny B. good although they were credited to berry for a long time. Finally Johnson decided to strike out on his own 30 years later and we all should be greatful that he did. Johnnie B. bad is his second solo album and it is just great to listen to. His first album, bluehand Johnnie, while filled with hot piano licks, really sounded forced and uninspiring and almost electronic. Finally with this album he got it all together and just played what he wanted to play and everyone who sat in with him to make this record sounds like they are having a great time. for me the standout track is the opener, "Tanqueray." I could just play that song all day long. It has a nice raw sound to it - almost like a spontaneous jam session. The album carries this feel through almost every track so it sounds like you are listening to a group of guys playing the blues just to have some fun, but the piano player just happens to be the one and only Johnnie Johnson. pick this CD up and you will very quickly see why Johnson easily deserves to be a well-respected musician in his own right - Chuck berry or no chuck berry.


Leggendario pianista boogie scomparso nel 2005 al quale Chuck Berry dedicò il brano più famoso della storia del rock'n'roll: Johnnie B. Goode.

Tracklist:

1. Tanqueray
2. Hush Oh Hush
3. Johnnie B. Bad
4. Creek Mud
5. Fault Line Tremor
6. Stepped In What!?
7. Can You Stand It
8. Key To The Highway
9. Blues #572
10. Baby What's Wrong
11. Cow Cow Blues
12. Movin' Out


FERMIAMO LO SCERIFFO


In un clima già di per se molto teso, alla riunione in Germania dei paesi autoproclamatisi "governanti del mondo" doveva essere in discussione come ordine del giorno la riparazione dei danni al pianeta da loro stessi causati per assicurarsi il predominio sul resto del mondo. Lo sceriffo Bush, che già qualche giorno fa aveva annunciato la costruzioni di scudi spaziali su paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca in barba alla volontà dei loro abitanti, e suscitando le ire di quell'altro stinco di santo di Putin, non ha trovato nient'altro di meglio da fare che attaccare il presidente russo parlando di "democratica deragliata", innescando, di fatto, una nuova guerra fredda di cui non sentivamo certo la mancanza. Inoltre in merito al problema clima la scorsa settimana Bush ha rotto gli indugi alla sua maniera, facendo precipitare sul tavolo dei negoziati una proposta-bomba che suona più o meno così: seppelliamo Kyoto, che non ci è mai piaciuto, e buttiamo via la complicata road map frutto di quasi vent'anni di trattative, sediamoci invece intorno a un tavolo con i più grandi inquinatori del pianeta che, sotto la guida statunitense, vinceranno la guerra contro l'effetto serra.Di fatto gli Stati Uniti restano il maggiore inquinatore del pianeta, tragicamente indietro rispetto all'Europa in tutti gli aspetti che riguardano l'efficienza energetica e l'abbattimento delle emissioni, dalle auto a basso consumo all'energia elettrica prodotta con centrali a carbone che risalgono agli anni Quaranta del Novecento. Azzerare Kyoto per gli Usa è doppiamente conveniente: significa fare fuori la concorrenza europea e insieme l'obbligo di rispettare degli impegni prefissati - è nota l'avversione dell'amministrazione Bush per qualunque trattato che osi paragonare gli obblighi di Washington a quelli degli altri paesi - ma, soprattutto, significa cancellare il riconoscimento del debito ecologico del Nord nei confronti del Sud del mondo. Urge a questo punto cercare di fermare in qualsiasi modo lo sceriffo; qualcuno ha fatto appello alla giustizia divina, ma potrebbe arrivare troppo tardi.
Chiapaneco

martedì 5 giugno 2007

JJ Cale & Eric Clapton - Road to Escondido


Uno dei meriti di Eric Clapton è stato quello di aver portato alla ribalta il nome di J.J. Cale. Se non fosse stato per le versioni di Clapton di canzoni come "Cocaine" ed "After Midnight", adesso J.J. Cale sarebbe un nome noto solo a pochi cultori e lui magari se ne starebbe tranquillo a suonare nella sua roulotte.Durante gli anni i due si sono sempre apprezzati e stimati da lontano, conducendo ognuno la propria vita professionale e privata e nessuno avrebbe mai immaginato una produzione musicale firmata e suonata "a metà" da due personaggi così differenti. Da una parte Eric Clapton, icona tipica della rockstar passata per top model, droghe, alcool e disintossicazioni varie e dall'altra l'oscuro e riservato J.J. Cale, amante della sua sola chitarra, musicista schivo ed amante di uno stile di vita al di fuori di ogni tipo di ribalta (finanche quella economica direi)."Road to Escondido" non è solo l'incontro musicale tra due eccelsi bluesman, dunque, ma anche la celebrazione di un'amicizia a distanza. Uno di quei rapporti magici che solo il mondo del blues sa comprendere. La lineup è di quelle a 5 stelle(Steve Jordan alla batteria, al Basso Nathan East e Pino Palladino, al piano e all' Hammond B3 il mai dimenticato Billy Preston, all'armonica Taj Mahal e Doyle Bramhall II, Dereck Trucks e John Mayer alle chitarre) ed i nostri due giocano in questo lussuosissimo parco giochi di strumentisti e produzione con il fare sornione di chi sa il fatto suo, di chi - come cantano in uno dei migliori brani - è "Hard To Thrill", di chi ne ha viste e vissute talmente tante che non si smuove più di tanto, riducendo gli sforzi al minimo. Quel minimo che basta per arrivare alla bottiglia ed alla chitarra più vicine.E' scontato dire che sia un lavoro più che buono, potevamo mai attenderci una delusione da musicisti di tale portata?Pur essendo le canzoni tutte scritte a 4 mani, le cose migliori arrivano, tuttavia, quando è il sound di Cale a dominare il ferreo equilibrio voluto ed ottenuto in questo cd. Canzoni come "Sporting Life Blues" e la già citata "Hard to Thrill" ci riportano alle atmosfere torride, pastose ed assolate del miglior Cale ed è proprio in questi frangenti che il cd acquista quello spessore tale da diventare un cd da riascoltare con piacere e non solo un buon prodotto commerciale adatto a palati diversi.Un cenno doveroso va fatto all'ottimo Billy Preston che con questo disco effettua l'ultima sortita in studio prima della sua dipartita ed a cui tutto il cd è dedicato. Ride on Billy, ride on...Giovanni de Liguori

Track list
01. Danger
02. Heads in Georgia
03. Missing Person
04. When This War Is Over
05. Sporting Life Blues
06. Dead End Road
07. It's Easy
08. Hard To Thrill
09. Anyway The Wind Blows
10. Three Little Girls
11. Don't Cry Sister
12. Last Will and Testament
13. Who Am I Telling You
14. Ride The River

COSMIC ROUGH RIDERS – The Stars look different from down here (2006)


Siamo arrivati alla sesta prova del gruppo di Glasgow, che era balzato prepotentemente all’attenzione della scena musicale con il fresco e naif Enjoy the melodic sunshine nel 2000. Un album che conteneva una bella ispirazione e soprattutto melodie raffinate che ricordavano la Swinging London dei tardi ’60. E’ un’atmosfera che si respira anche nella prima traccia di questo album, It Is I. Ma piano piano il mood spensierato si stempera ed ecco che il disco preferisce muoversi su altri binari, meno solari, sempre caratterizzati dal ritmo ma costruiti più per essere ascoltati con attenzione piuttosto che per passare 40 minuti spensierati. Specialmente l'ultimo brano, che dà il titolo all'album, è una tipica ballata affidata alla sola voce e al pianoforte, mentre In Time e Fight ricordano alcuni momenti degli Oasis. Certo, ai tre musicisti (Mark Brown, James Clifford, Stephen Fleming) c'è da riconoscere un obiettivo di fondo, quello di cercare uno stile originale mettendo nel calderone varie influenze. Una ricerca che viene condotta con onestà, ma che spesso non sortisce gli effetti desiderati. Che poi il disco sia gradevole, quello è un altro discorso.
Michele Manzotti

Track list
1. Is It I
2. When You Come Around
3. In Time
4. Don't Get Me Down
5. Lost In America
6. Emptiness
7. Love Won't Free Me
8. Fight
9. Just A Satelite
10. This Is Your Release
11. People Are People
12. The Stars Look Different From Down Here

THE RIPPERS - Tales Full of Black Soot (2007)


I cagliaritani The Rippers si caratterizzano per un suono che trae a piene mani dal repertorio sixties e, forse in misura maggiore, da quello che viene chiamato neo-garage, ovvero la riproposizione di quei suoni nei successivi anni ottanta, quando al rhytm&blues, al surf e al rockabilly si aggiunse la foga del punk rock.Da circa cinque anni ormai The Rippers fanno un garage genuino: quello più sudato, esagitato, sporco e ribelle che possa essere suonato - un'attitudine in perfetta linea con quella di gruppi quali Tell Tale Hearts, Pretty Things e i tanti altri indicati quali modelli di riferimento. La loro musica è adrenalina, che ti trascina, ti fa ballare, ti fa saltare e ancora ballare, fino a quando il tuo corpo non è più padrone di se stesso. Con una formazione essenziale, fatta di batteria, basso, chitarra, voce e, naturalmente, armonica, scatenano deliri sonori impulsivi, ma al tempo stesso ricercati. Prendete "My black light", "She doesn't believe me" o "A strange story": è come girare su se stessi a massima velocità, fino a cadere a terra, storditi.


Tracce:
01. A strange story
02. No
03. I would mistreat you
04. Who’s knocking?
05. She drives me mad
06. I’m unstable
07. Demons & witches
08. From home
09. She doesn’t believe me
10. Dark side of your mind
11. My black light
12. But I’m so blue
13. I’ve got to find a way

lunedì 4 giugno 2007

ELEVENTH DREAM DAY - Zeroes And Ones (2006)




Sarà la calma con cui è stato scritto e inciso, sarà una sorta di allegro disimpegno che sembra trasparire da queste 12 tracce, ma nulla in "Zeroes and ones" risulta eccessivo o sprovvisto di freschezza. Dai pezzi più diretti e sferraglianti, che odorano di Dream Syndicate, come "Lately I’ve been thinking" e "Lost in the city", a quelli più rilassati e scherzosi, come "The lure" e "From k to z", dalla magnifica apertura di "Dissolution", con un McCombs straordinario, al dittico conclusivo formato da una "Pinwheels" luccicante e una "Journey with no maps" che dimostra una consapevolezza di scrittura veramente notevole, nulla è fuori luogo, la band suona veramente “loud” e le tastiere adempiono perfettamente al proprio compito di sorreggere la struttura. Un capitolo a parte meritano i due pezzi in cui la chitarra di Rizzo si erge a protagonista assoluta: "For Martha" è una declinazione del verbo dei Jesus and Mary Chain con in più un finale deflagrante e saturo; "New rules" parte corale e armonica, poi si spezza e si blocca su un giro di accordi che speri non abbia mai fine, fino a quando inizia l’assolo, una delizia infinita che sta tra Ira Kaplan e Neil Young, e che renderà questa canzone una necessità, un bisogno fisico.
"Zeroes and ones" è l’album perfetto per iniziare ad amare gli Eleventh Dream Day, e si tratta, almeno per il sottoscritto, di una vera e propria folgorazione. La loro fetta di storia è piuttosto piccola e, soprattutto, ben nascosta; è uno scatolone buttato in un angolo fra gli scaffali ricolmi nel magazzino della storia della musica rock: ma vi verrà voglia di appropriarvene, svuotarlo completamente e godere del contenuto fino in fondo. “And the Oscar goes to…”
di Michele Sarda

TRACKLIST
01
Dissolution
02 Insincere Inspiration
03 For Martha
04 Lately I've Been Thinking
05 New Rules
06 Lost in the City
07 Return of Long Shadow
08 The Lure
09 From K to Z
10 For Everything
11 Pinwheels
12 Journey with No Maps


... AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD - So divided (2006)


Odioso o adorabile?
...ma non solo, vi abbiamo conosciuti anche per le sferzate noise, per un`attitudine post-punk e per uno sperimentalismo sopra le righe. E ora dobbiamo ri-conoscervi. Per le composizioni magniloquenti, per le melodie poppeggianti e per uno sperimentalismo sopra le righe. Quest`ultimo, dunque, non è evidentemente una novità in casa Trail Of Dead, bensì il trait d`union di una carriera all`insegna dell`evoluzione e della divisione della critica. "So Divided" sancisce nelle parole proprio l`inguaribile frattura che si è andata sempre più aprendo nel corso degli ultimi album tra i detrattori di una musica barocca, melliflua e intrinsecamente superflua e gli estimatori indefessi di una genialità continua, inarrestabile e affascinante. Una vera e propria festa dell`intelletto artistico, come quella che mette in note l`intro del nuovo album, da cui deflagra una "Stand in Silence" che è la cifra dell`appeal vitale e gioioso dell`intero album. Sotteso a questo, centinaia di riferimenti, stili, divagazioni e influenze. Dai Beatles a Peter Gabriel, dal blues al brit pop. Dovunque si guardi, tra le tracce di "So Divided", non c`è apparente unità d`intenti, se non il filo di Arianna che ci riporta allo sperimentalismo sopra le righe di cui sopra. E allora, su questo è necessario porre l`attenzione, più che sulla pletora di implementazioni sonore che esso comporta. Questa volta, seguendo lo spunto del passato, ancora più raccolte da un manto di pop melodico quasi completamente impermeabile agli estremismi sonori che sono propri delle radici dei Trail Of Dead.

di Alessandro Baldini

Componenti del gruppo
Kevin Allen, Conrad Keely, Jason Reece, Doni Schroader, Danny Wood


Tracklist:
1. Intro: a song of fire and wine
2. Stand in silence
3. Wasted state of mind
4. Naked sun
5. Gold heart mountain top queen directory
6. So divided
7. Life
8. Eight days of hell
9. Witch’s web
10. Segue: Sunken dream
11. Sunken dreams
12. Witch’s web (Original version)

FUORI CALDERON


Il presidente Felipe Calderon sarà a Milano il 5 giugno 2007
Afuera Calderon! Contestiamo la visita del Presidente Messicano a Milano
Basta con la violazione dei diritti umani in Messico
Martedì 5 giugno 2007
Tutti/e a Milano il 5 giugno 2007 dalle ore 10.30 in Piazza Affari.
Ai primi di Giugno sarà in Italia Felipe Calderón attuale Presidente del Messico.Tappe principali della suo giro saranno l’incontro con Prodi e il Papa.
Il 5 giugno sarà a Milano per incontrare gli industriali e gli imprenditori e sollecitare maggiori investimenti in Messico.
In questa occasione saremo pronti a dare il "Bienvenido" alla nostra maniera a Sua Indecenza "Presidente Felipe Calderòn", erede di Vicente Fox, con cui condivide le responsabilità per i massacri in Chiapas, in Oaxaca e ad Atenco.
Non vogliamo il presidente Calderòn né a Milano né in Europa.Vogliamo che sia giudicato da una corte internazionale per crimini contro l’Umanità.Per la dignità ribelle della lotta zapatista in Chiapas, delle lotte dei maestri di Oaxaca e dei fiorai di Salvador Atenco.
Per un’America Latina sociale, giusta e libera dai tiranni e assassini al soldo delle multinazionali e dei latifondisti.
Saremo in tant@ fuori dai templi del denaro e del potere a segnalare che lì dentro c’è un assassino e che a riceverlo con gli onori di Stato si diventa complici.
Infatti cinquant’anni d’applicazione delle politiche neoliberiste in America Latina hanno prodotto devastazione, miseria e povertà.Hanno depredato un continente delle risorse naturali e ridotto uomini, donne e bambini alla fame e al conseguente esilio di massa.
A seguito di queste considerazioni, convochiamo la società civile, le associazioni, i singoli e i collettivi a una giornata di mobilitazione contro Felipe Calderón, che sarà a Milano, nel Palazzo Mezzanotte a Piazza Affari, il 5 giugno 2007, per un "business forum" Italia-Messico, cioè per fare affari con la crème degli speculatori finanziari nostrani.
Vi invitiamo pertanto ad aderire a un escrache a Felipe Calderon!!
Come nella migliore tradizione latinoamericana, saremo presenti per tutto il 5 giugno a Milano per un escrache contro Felipe Calderón, ovvero per dire a tutti che questo personaggio è un criminale e un ospite non desiderato.Lo faremo con le nostre pratiche di movimento, e invitando tutte/i a rendere visibile e rumoroso il nostro dissenso: con striscioni ma anche con pentole e padelle, perché un bel cacerolazo disturbi i loro affari sporchi.
Afuera Calderon!Libertà e giustizia per il Chiapas!Libertà e giustizia per Atenco!Libertà e giustizia per Oaxaca!
Da Roma a Milano: giornate di mobilitazione nazionale contro Felipe Calderon.
Adesioni:Associazione Italia-NicaraguaComitato Chiapas Maribel (Bergamo)Comitato Chiapas CastellanzaCircolo Lavoratori FFSS "Spartaco Lavagnini" FirenzeAssociazione In Viaggio, Menaggio (Como)Associazione Arci Oltre Confine per i Diritti Umani - FerraraComunità Resistenti delle MarcheCantiere (Milano)
Per info e adesioni:
Associazione Ya Basta!mail: afueracalderon@email.it
Dopo una «vittoria» all'insegna della frode, i primi 6 mesi della presidenza Calderón, paladino delle multinazionali e dell'estrema destra cattolica, hanno portato il Messico sull'orlo del baratro. Oggi, perfino i suoi sostenitori, passata l'euforia di una vittoria usurpata, cominciano a rendersene conto.La sua incauta offensiva contro il narcotraffico - il primo potere reale in Messico, non solo economicamente - sta insaguinando il paese, mettendo in fuga gli sperati investimenti stranieri e risvegliando pruriti rivoluzionari nel popolo, narcotizzato da 70 anni di Pri, il partito della «dittatura perfetta».Il sessennio di Vicente Fox, che conquistò la presidenza nel 2000 con il Partido de Acción Nacional inaugurando l'agognata alternanza, era bastato a deludere le speranze dell'elettorato. Il «trionfo» di Calderón, dichiarato vincitore per lo 0.58%, è stato la mazzata finale per un Messico impoverito - malgrado i miliardari da Forbes, come Carlos Slim -, represso e ormai privo di qualsiasi sovranità, perfino quella alimentare.Nato sotto l'egida della tutela militare, entrato letteralmente per la porta di servizio del Congresso occupato dalla sinistra a prestare giuramento, il governo di Calderón ha annaspato fin dall'inizio alla ricerca di legittimità. Ma ha imboccato il vicolo sbagliato, inalberando la bandiera della lotta alla delinquenza organizzata. I suoi primi provvedimenti sono stati un aumento di stipendio ai militari, peraltro irrisorio, e la concessione di un modesto sussidio agli anziani. Una proposta, quest'ultima, del candidato di centro-sinistra, Andrés Manuel López Obrador, che Calderón aveva giudicato «populista».Le principali promesse di campagna del neopresidente, soprannominato FeCal dall'inventiva popolare, si sono rivelate tragiche burle. La creazione di nuovi posti di lavoro si è tradotta in un saldo negativo e ogni giorno più di mille messicani sono costretti a emigrare illegalmente negli Usa per sfuggire a disoccupazione e miseria. L'esodo ha raggiunto dimensioni epiche e il Messico è ormai il primo paese «esportatore» di manodopera, superando India e Cina (dati Onu).La sicurezza, poi, è un ricordo del passato. I notiziari televisivi, per quanto filo-governativi, non riescono a occultare il crescente numero di morti, giustiziati dai narco-trafficanti (una media di 7-8 al giorno, dal principio dell'anno). La connivenza tra «forze dell'ordine», settori della classe politica e grandi cartelli narcos è sempre più evidente. L'uso dell'esercito per l'ordine pubblico sopprime le libertà fondamentali e, invece di porre freno a una delinquenza ormai scatenata, produce gravi violazioni dei diritti umani.Alle manifestazioni di dissenso e ai movimenti sociali si risponde con la militarizzazione, la brutalità poliziesca e l'uso punitivo dell'apparato giudiziario. Tre dirigenti del movimento di San Salvador Atenco, che si oppose con successo nel 2002 alla costruzione di un aeroporto sulle sue terre, sono stati condannati a 67 anni con false imputazioni.A Oaxaca, il governatore Ulises Ruiz Ortiz, mandante di una ventina di omicidi, è ancora in sella malgrado un movimento popolare che ne chiede le dimissioni da un anno. Flavio Sosa, portavoce della Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca, e i suoi fratelli sono rinchiusi in carceri di massima sicurezza. In un contesto in cui i narcos inviano teste di decapitati ai giornali e i comandi militari difendono i propri uomini accusati di stupri e violenze, Calderón si incontrerà con Clemente Mastella «per conoscere l'esperienza italiana nella lotta alla mafia».Calderón incontrerà anche Prodi, il presidente Napolitano e Franco Marini. La visita a papa Ratzinger in Vaticano è stata definita dal ministero degli esteri messicano «un incontro fra capi di Stato» in cui, secondo le dichiarazioni ufficiali, non si parlerà del tema dell'aborto, recentemente legalizzato dall'amministrazione di Città del Messico.A Milano, seconda tappa del suo viaggio, Calderón parteciperà a un incontro con imprenditori italiani. Poi, a Parigi, vedrà Sarkozy, a Bruxelles visiterà l'Unione europea per ribadire l'adesione del suo governo all'«Accordo di associazione economica, concertazione politica e cooperazione» in vigore fra Ue e Messico dal 2000. Il 6 e 7 giugno, parteciperà come invitato al vertice del G8 a Heiligendamm e poi andrà in Danimarca.Non si sa se porterà con sé il presidente del suo partito Manuel Espino, membro del gruppo paramilitare cattolico El Yunque (l'incudine) e suo nemico. Come se non bastasse, infatti, è in corso una guerra intestina nel Pan, che vede contrapposti il comitato d'affari del presidente e l'ultra-destra clericale.Poco prima della partenza, Calderón, dopo aver «riformato» secondo i dettami neo-liberisti il sistema pensionistico e la previdenza sociale, scatenando grandi proteste popolari, ha varato una nuova legge contro il terrorismo - inesistente in Messico ma ossessione di George W.Bush - e ha istituito una nuova polizia militarizzata, incostituzionale.

venerdì 1 giugno 2007

The Walkmen - A Hundred Miles Off (2006)




Come è convenzione da parte della critica, il terzo album è sempre considerato quello della conferma o quello della caduta nel baratro. I Walkmen, formazione newyorkese sempre in bilico tra folk e indie-rock ha superato la prova a pieni voti, confezionando forse l'album più bello della carriera della sua carriera. Inconfondibile la voce di Hamilton Lithauser, sempre roca e cantilenante, ma diventata ormai un marchio di fabbrica che fa riconoscere un brano dei Walkmen tra mille. Il pop e il rock danzano sinuosi insieme dove talvolta conduce l'uno e talvolta l'altro. Per chi già conosce questa formazione, le sorprese che ci si possono aspettare sono tante, questa volta sembra che la band si sia lasciata andare ad una ricerca delle origini, ricerca che pone le fondamenta nel folk. Quale allora il modo migliore di iniziare un album di questo tipo se non con un brano bucolico come "Louisiana"? La voce di Hamilton ricorda quella di Bob Dylan in maniera impressionante soprattutto nel pezzo "Good for you's good for me" così come in "Emma, get me a lemon" dove la batteria e le chitarre si fondono in una unica ritmica molto frenetica ma aperta anche a cambi di fronte. I pezzi che fanno sognare paesaggi nordamericani sono tanti come "Lost in Boston" e "Tenley-town", e il talento di questi artisti fa capolino in ogni scelta stilistica che rende "A hundred miles off" un album da ascoltare e riascoltare.



Tracklist1. Louisiana2. Danny's At The Wedding 3. Good For You's Good For Me4. Emma, Get Me A Lemon5. All Hands And The Cook6. Lost In Boston7. Don't Get Me Down (Come On Over Here) 8. Tenley-Town9. This Job Is Killing Me 10. Brandy Alexander 11. Always After You ('Til You Started After Me) 12. Another One Goes By

Il gruppo comprende
Hamilton Leithauser (voce, chitarra), Paul Maroon (chitarra, piano), Walter Martin (organo), Peter Bauer (basso) e Matt Barrick (batteria)